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Giuseppe Possa
Il quotidiano sublimato -
presso il Castello Visconteo di Vogogna (VB) su invito dell'Amministrazione Comunale
e presso la Galleria Laborart di Piedimulera (VB) nei mesi di giugno e luglio 2007.-
Dall’Espressionismo degli esordi all’astratto-
di Giuseppe Possa
Alla “Fabbrica Eos”, una galleria nel cuore di Milano, il 30 marzo 2000 fu inaugurata la mostra “L’estetica quotidiana” del pittore Seba. Non lo conoscevo, ma fui incuriosito dal fatto che l’autore utilizzasse nel suo processo artistico il computer, le tele emulsionate e la fotografia. Così visitai la rassegna e mentre osservavo quei quadri – raffiguranti paesaggi urbani che, in una ricerca della realtà mirata a rappresentare la società attuale, diventano specchio della solitudine quotidiana, in cui tuttavia si coglie e si percepisce una visione più universale dell’esistenza – mi sentii chiamare alle spalle: “Giuseppe, ti ricordi di me? Sono Sebastiano Parasiliti. Parecchi anni fa, in occasione di una mostra a Palazzo S. Francesco di Domodossola, hai recensito su “Eco-
Non lo incontravo più da una decina d’anni, da quando tornò in Sicilia. Fu naturale per lui, in quel momento, rievocare i trascorsi domesi: “Vivo ed opero a Piano Tavola, in provincia di Catania” mi disse, “ma non ho mai scordato i tredici anni passati in Ossola e le esperienze avute in pittura facendo parte del G.A.O. (Gruppo Artisti Ossolani), oltre che di vita artistica frequentando gli ambienti locali. Con Domodossola non ho mai rotto i rapporti; di tanto in tanto ci ritorno per trovare i parenti e anche gli amici. Posso affermare con orgoglio che quel lungo soggiorno mi fa sentire un po’ domese”.
Ora mi considero onorato di poter scrivere di lui, poiché ho l’occasione di mettere in rilievo come il lavoro di Sebastiano Parasiliti prosegua sulla linea che deve avere il ruolo dell’artista oggi, che non è solo quello di comunicare i grandi valori spirituali o di mettere a punto un linguaggio cifrato che vale di per sé, indipendentemente da ciò che comunica o intende comunicare, come scrisse il noto critico Lucio Barbera presentando il catalogo di Seba distribuito in quella mostra, “ma anche quello di diventare specchio della vita quotidiana, sebbene si tratti di uno specchio particolare, perché dietro l’apparente indifferenza con cui le immagini sono colte e percepite, si annida anche l’offerta di una più profonda visione del mondo”. In effetti, le sue tele ci spingono a meditare, con quei paesaggi “urbani”, chiusi e quasi senza speranza che fanno pensare alla solitudine dell’individuo, vittima di una società soffocante. Inoltre, l’aria degli ambienti pare resa asfittica nell’elaborazione pittorica-
UNA GIOVINEZZA IN SALITA: -
GLI INIZI PITTORICI: -
In quegli anni ossolani, da lui considerati di grande apprendistato ed un terreno fertile per le sue potenzialità che altrimenti non sarebbero emerse, Parasiliti visita alcune mostre importanti che lo colpiscono, come quella di Sironi a Milano nel 1985 o quella sugli anni Trenta in Italia e in particolare quella degli Espressionisti Tedeschi del museo Sprengel di Hannover. Spiritualmente, sempre negli anni Ottanta – ma poi anche successivamente -
I CICLI DELLA SUA PITTURA E LE MOSTRE: -
Quando nel 1991 Seba ritorna in Sicilia inizia un ciclo che si potrebbe definire “romantico” e dipinge paesaggi di fantasia e angeli pescatori o vendicatori, in un’atmosfera malinconica. Questi suoi lavori (dai toni molto bassi, perlopiù scuri, per l’utilizzo di ocre, terre, blu di prussia ecc.) sono stati esposti nella sua prima personale, a Paternò (CT) nel 1993. Dall’anno successivo e per un paio d’anni, egli si dedica ai “paesaggi urbani monocromatici”, dove dominano i toni del blu cobalto o del blu ciano. Le stesse tinte le utilizza per i “Paesaggi minimi”, spesso composti semplicemente da una sottile linea d’orizzonte.
Dal 1996 Seba si sta dedicando a disegni su carta di piccolo formato, molto elaborati dal punto di vista tecnico, in quanto utilizza l’olio, il carboncino, i pastelli, l’acquaragia, emulsioni varie, e che alcuni critici definiscono “Bitumi”, forse perché molto scuri. Parallelamente, dal 1999 sta lavorando anche alla sua pittura attuale. Egli – avvertendo il bisogno di confrontarsi nel proprio tempo con rinnovate forme espressive, dove l’ordine pare scompigliato da uno sfocato in bianco e nero – ci trasmette un’inquietudine emozionale, attraverso periferie urbane, oggetti del quotidiano, volti onirici, immagini virtuali, che ci proiettano entro le frontiere di un universo, dove i contenuti e le forme hanno una forte risonanza interiore.
Sul finire del millennio, conosce il gallerista Franco Cancelliere di Messina che gli allestisce – prima a Milano alla galleria Fabbrica Eos di Giancarlo Pedrazzini e poi a Messina nella sua galleria -
BREVE ITINERARIO CRITICO: -
“…Il giovane autore catanese si concentra sul tema del paesaggio urbano e riflette sulle modalità della comunicazione, esaltando valori minimali e quotidiani e smascherando la banalità apparente”, scrive Melisa Garzonio su “Vivi Milano” supplemento al “Corriere della Sera” del 29 marzo 2000, a cui fa eco Gian Marco Walch su “Il Giorno” del 1 aprile 2000: “La città, qui e oggi. Paiono fotogrammi rubati a un film di Wim Wenders, magari al favoloso “Paris – Texas”, mai un attimo di scena ferma, almeno cartacce svolazzanti, o il bagliore fugace degli stop d’un’auto. O reperti di un album di ricordi della beat generation, lì anime svolazzanti, e più frenetici gli stop…A cercare una terza via, fra pittura e Art Video. …E la loro freddezza, ancora più fredda del freddo realismo, finisce per tingersi del sapore della nostalgia”. Mentre Alessandra Redaelli, in un articolo più approfondito apparso nel gennaio 2001 sulla rivista “Arte” dell’Editoriale Giorgio Mondadori, così annota: “Scorci urbani desolati: un cartello stradale, un’aiuola con pochi fili d’erba avvelenati dai gas, un cielo grigio, un muro, un albero. Oppure un guardrail in primo piano, case lontane, e un albero, quasi come un personaggio incongruente in uno scenario che non gli appartiene. O, ancora, due silos incombenti, sotto un cielo plumbeo che stempera nel giallo. E’ una periferia buia, colta prima dell’alba o al crepuscolo, tutta giocata sui grigi e sui neri. Sul potere evocativo della macchia. Che si impasta sulla tela e sembra possa sporcare le mani di chi la tocca. Come lo smog e i gas di scarico delle auto si impastano in solide nuvole nere sui muri e sugli alberi. Eppure i dipinti di Seba non vogliono essere una denuncia. Il suo scopo è quello di scovare la poesia sotto l’abbrutimento della città moderna. “Per vivere bisogna imparare a trovare la bellezza in tutto quello che si vede. Anche in ciò che si incontra ogni giorno e spesso ci si dimentica di guardare. O, quando lo si guarda, a prima vista può sembrare triste, desolante”, dice Seba. Lui il bello l’ha visto nelle periferie urbane. Quelle del Nord, dove ha lavorato per tanti anni, a Domodossola, e quelle del Sud, della sua Sicilia. Dove è nato e dove è tornato quando la sua professione è diventata la pittura. Innamorato delle fotografie in bianco e nero ( “ Mi piacciono le visioni di Gabriele Basilico”, dice) come della pittura di fine Ottocento, da Fontanesi a Grubicy, Seba ha trovato il modo di declinare la tecnica moderna in quel linguaggio intriso di romanticismo. Fotografa ciò che colpisce la sua fantasia, rielabora lo scatto al computer e poi usa il risultato come modello per le sue tecniche miste (olio e acrilico) su tela. Per lo più piccoli formati, con il sapore dell’album fotografico, dove i contorni sfumati degli oggetti, che sembrano talvolta prolungarsi nell’ambiente e fondersi con esso, danno un’idea di movimento, di velocità, come di immagini colte dal finestrino di un treno in corsa”.
Infine, ecco alcuni brevi stralci, tratti da cataloghi: “Segni particolari: silos, strade e fabbriche dismesse. Ma anche luoghi, passaggi e tranches de vie che hanno la forza di far cadere ogni barriera tra l’arte e la quotidianità. Ecco il tratto tipico di Sebastiano Parasiliti, artista impegnato a fermare su tela i simboli di una società postindustriale, il dramma di tante solitudini, e le inquietudini di una società opulenta ma povera di spirito…” (Cinzia Ciavirella); “…Questi asfalti fluorescenti di una tangenziale sotto la pioggia, lo scroscio di luci di sagome meccaniche ed umane indistinte – il perfetto nulla dei nostri territori metropolitani, rodeo luminescente e metallico delle vetture e dei loro profili sfocati – non rappresentano una “regressione del pennello ad obiettivo” al contrario evidenziano proprio l’operazione opposta; quelle periferie sembrano in altri termini dire “io” attraverso la rielaborazione tecnico/pittorica di Seba: in questo senso costituiscono “narrazione” ovverosia autonomia “coscienziale” rispetto alla mera riproduzione meccanica; al contempo storia personalissima e universale del paesaggio dall’utopia urbana alla sua negazione, identificazione dello spazio come snodo centrale dell’esperienza del mondo, legame “dipendente” in grado però di creare identità…” (Giuseppe Condorelli). “…Seba coglie le periferie algide e spoglie delle oniriche visioni urbane e suburbane che caratterizzano certa riflessione sironiana, e sono in realtà degli stati d’animo virtuali, perché percepiti attraverso la coscienza, ma ne incrocia le misteriose derivate con contorni specifici, aderenti al flusso del vivere, quindi reali.” scrive, tra l’altro, lo storico dell’arte Dario Gnemmi, concludendo: “…L’ellissi di pensiero che attraversa l’opera di Seba, sembra così avere uno dei suoi fuochi in quella che ci piace definire come una voluta, perseguita inidentificazione hopperiana. Al contrario di Hopper, Seba traccia i contorni del vero, letto e vissuto come scaglia cronologica, scintilla incandescente e perciò bruciante dell’esserci (dasein ) di heideggeriana memoria”.
L’INTERVISTA: -
Da quando è nato il tuo amore per la pittura?
“Da sempre, credo e sono convinto che la mia passione per l’arte sia nata dal desiderio di eliminare la banalità che ci circonda e di colmare la solitudine e il vuoto creato dall’incomunicabilità insita nella natura umana”.
Perché dipingi? Dipingi per te, per gli altri o anche per vendere?
“Dipingo soprattutto per me e perché non riesco a farmi ossessionare da altre cose. Penso alla pittura come ad una medicina, infatti, la considero terapeutica, quindi la vendita di un’opera è la giusta gratificazione a chi ha creato questa terapia”.
Parlaci della tua pittura. Cosa racconta?
“Racconta il mondo che vediamo tutti i giorni, sublimato dalla mia visione personale. Perché un cespuglio ai margini della strada, una fabbrica in disuso, lo svincolo di una tangenziale o un cartello stradale arrugginito dalla pioggia non sono belli, come non sono belle le città in cui per un motivo o per un altro siamo costretti a vivere. Io tutto questo cerco di renderlo più tollerabile, più poetico. Cerco la bellezza nelle pieghe anche scabrose, a volte, della nostra quotidianità”.
Seba, come definiresti la tua pittura?
“Definire la propria pittura è come guardarsi allo specchio, in un certo senso e a volte non è facile farlo. Penso che il mio lavoro sia sospeso tra emozione e ragione. C’è sempre stato in me questo bisogno di aprirmi, in qualche modo, al mondo e allo stesso tempo di farlo il più razionalmente possibile. Un collezionista ha definito i miei quadri “meravigliosamente tristi”, credo che questa definizione si adatti molto bene al mio lavoro. Effettivamente nelle mie opere si percepisce una piacevole malinconia, sia nei toni che nelle atmosfere”.
A cosa si deve la scelta dei tuoi temi e del tuo stile pittorico?
“Sono cresciuto a Piano di Tavola (CT), che si trova su un altopiano alle pendici dell’Etna, il cui territorio è costituito, per gran parte, dalla nera roccia lavica, chiamata “Sciara”. Per molti anni è stato un agglomerato industriale, con i capannoni, le vie disadorne. Credimi, il mistero di queste vie urbane me lo porto dentro da sempre e con la contraddizione dei suoi colori ha contribuito alle mie scelte. Sullo “stile”, ti risponderò con una considerazione, forse, un po’ polemica. Se la parola “stile” viene intesa come coerenza temporale del mio modo di dipingere, allora credo che non si adatti al mio lavoro, visto che sono interessato a diversi modi di intendere la pittura. Il “mio stile” è un’espressione che mi piace poco, perché in qualche modo cerca di incapsularti in questa o in quella scuola. Forse oggi, il vero “stile” è di non possederne uno: siamo talmente bombardati da immagini d’ogni tipo, da avere la mente sottoposta ad un’infinità di stimoli visivi, in cui poter stabilire, di volta in volta, quelle che più interessano. Oggi, abbiamo la libertà di poter scegliere: quindi, parlerei di preferenze pittoriche o tecniche. Nel mio caso, la scelta è caduta sulla fotografia, che in questi anni è diventata sempre più importante e che, in ogni caso, resta il mezzo migliore per catturare l’istante. Mi ha sempre affascinato la bellezza sprigionata dalle foto in bianco e nero dei grandi fotografi. Oggi, entri in una mostra e puoi trovare opere dello stesso autore sia astratte che figurative, come puoi trovare installazioni o foto, magari eseguite nello stesso periodo: la coerenza dello “stile” non è più un valore assoluto, come un tempo. Quello che conta, in fondo, è la qualità intrinseca dell’opera e l’originalità del lavoro”.
In che modo nella tua opera è intervenuta o interviene la pittura della Sicilia?
“A dirti il vero, conoscevo molto poco la pittura siciliana, a parte artisti come Guttuso e Migneco. Negli ultimi 4/5 anni ho cercato di saperne di più leggendo “Novecento in Sicilia” di Giovanni Bonanno e visitando, qua e là, mostre significative. Ammiro alcuni artisti del “Gruppo Scicli”, ma tutto sommato non penso di aver subito “interventi” della pittura siciliana, nella mia opera. In pittura, credo di essere “cittadino del mondo””.
Da dove parti con le tue opere?
“Spesso parto da fotografie scattate da me, che poi modifico col computer, in modo meditato. In seguito, i soggetti che ritengo migliori li dipingo ad olio su tela. Quasi sempre per la prima stesura del quadro uso gli acrilici. I tempi sono di solito lunghi e dipendono dal mio stato d’animo”.
Da dove trai stimoli ed ispirazione per la tua creatività?
“Dalla vita di tutti i giorni, dalle copertine dei giornali, dalle foto di moda, da internet, da un particolare di un’istantanea che mi colpisce. In poche parole, da tutto ciò che mi circonda. A volte posso lasciarmi influenzare da una moda, ma solo per cogliere ed assorbire l’elemento di novità che essa ha necessariamente dentro”.
Seba, ti capita di avere momenti di “crisi”?
“Purtroppo, sì. Tuttavia, penso che questo faccia parte del mio essere artista e dal fatto di possedere un senso dell’autocritica quasi maniacale, che mi porta a mettere continuamente in discussione quello che creo”.
Generalmente a chi fai vedere per primo i tuoi quadri?
“A Simona, mia moglie, che è una critica molto severa”.
Sei pago dei risultati raggiunti?
“Mi posso considerare relativamente soddisfatto, anche se credo di avere ancora molta strada davanti a me. Ma pago… no, non credo”.
Come vedi l’arte alle soglie del terzo millennio?
“Mi pare che ci sia molta vitalità. Tuttavia, noto anche una certa teatralità dietro ad alcune operazioni artistiche. A volte la ricerca dello scandalo a tutti i costi, per attirare l’attenzione, porta ad operazioni come quella di Cattelan a Milano, con quei tre ragazzini-
Cosa pensi del rapporto tra l’arte e i media?
“Della carta stampata, in generale, si può parlare bene, esistono infatti alcune interessanti riviste specializzate. Vedo, al contrario, male il rapporto tra arte e TV, perché, a mio avviso, non viene mai data la giusta importanza a quello che fanno o pensano gli artisti. Questo è un danno per la nostra società, che è sempre più tesa a raggiungere una felicità dell’apparire piuttosto che dell’essere. Tutto questo proprio ‘’grazie’’ a quella che dei media è la regina incontrastata: la televisione. Questa grande e cattiva maestra offre sempre più spesso sterili servizi a sostegno di una politica inutile e reboante o pessime trasmissioni di fiction, gossip e show spazzatura, negando il giusto spazio agli artisti e all’arte in generale. Quante volte i telegiornali danno notizie di mostre o di avvenimenti letterari? Poche volte e quando lo fanno mi sembra che privilegino gli aspetti commerciali e di sponsorizzazione, a quelli culturali. Inoltre, quelle poche volte che la TV propone qualche interessante servizio su un grande artista, lo relega ad orari impossibili, a meno che non si tratti dell’ultima stratosferica quotazione raggiunta dai quadri di Picasso, Modigliani e dei soliti noti. Eppure, se ci guardiamo attorno i grandi pittori hanno influenzato e influenzano le nostre vite. Per restare in tema, proviamo a pensare per un attimo ai vari siparietti pubblicitari che le TV mandavano in onda qualche tempo fa, ispirati a Kandinskij, Klee, Mirò ed altri astrattisti o a quella famosa azienda cosmetica che nei suoi “spot” strizzava l’occhio in modo plateale ai quadri di Mondrian. Eppure, pochi spettatori sanno che molti stacchi pubblicitari traggono ispirazione dalle opere di grandi artisti. Per questo considero la TV una cattiva maestra, perché non sa educare il suo pubblico in modo adeguato. Vogliamo trovare un colpevole? Si chiama audience. Quanta percentuale di share, infatti, potrebbe ottenere una trasmissione sull’Informale o sulla Pop Art? L’1 o il 2 percento ad essere ottimisti. Lo stesso ragionamento si può applicare anche ad altre tematiche che la TV tratta raramente e comunque in modo non approfondito, perché dietro c’è il "Dio Audience = Denaro", sempre in agguato”.
Secondo te, l’arte deve stare fuori dalla politica?
“A volte c’è bisogno di lanciare anche messaggi politici, ma di norma, credo che debba starne fuori”.
Senza la pittura che sarebbe la tua vita?
“Sicuramente meno interessante, non siamo solo materia, ma anche spirito”.
Che cosa consiglieresti ad un giovane che si affacci all’arte?
“Di studiare ed informarsi su tutta l’arte, dalle origini ad oggi; di avere pazienza e di farsi “bruciare” dall’arte, perché senza il “sacro fuoco” della passione non si può arrivare da nessuna parte. Poi, dovrà lavorare, lavorare, lavorare… sempre e comunque”.
Che cosa prevedi di fare in futuro, caro Seba?
“Forse delle installazioni, della Video-
CONCLUSIONI: -
Il suo mondo pittorico, che pare senza speranza nella sua angosciante freddezza cromatica, vuole invece esprimere un desiderio di poetica bellezza, di luce, di pace ed un’aspirazione autentica alla ricostruzione dell’ambiente e dell’uomo. Proprio per questo, Seba ha avuto giusti e ampi riconoscimenti, dalla critica, dal pubblico e dal collezionismo più indipendente.
Giuseppe Possa
Giuseppe Possa è nato a Domodossola nel 1950. Residente a Villadossola, lavora a Milano in un’importante Casa Editrice. Oltre alla propria professione, si interessa di critica letteraria e d’arte. Scrive sul settimanale “Eco-